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Non vedo, non sento e

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“Non vedo, non sento e…” è un libro di attualità che fotografa, di verso in verso, il nostro tempo fatto di lavavetri, di attentati, di carrette del mare, di una umanità migrante, col corpo o con la mente, verso luoghi altri, divisa tra Maometto e Cristo, tra ricchi e poveri, tra omosessuali ed etero tra chi si trova di qua o di là di un confine; è una poesia di analisi e di denuncia nutrita dalla sensibilità dell’autrice.

 

“Squassa il boato / l’aria e le coscienze. / All’unisono tremano / la terra e i cuori. / Incredulo scheletro / fuma disperazione l’autobus. / Schegge di vetro / in occhi accecati. / Di sangue urla mute / su bocche atterrite. / Fantocci smembrati / e chiazze vermiglie / sull’asfalto annerito.” (“Attentato”, pag. 39).

 

Ciò che mi convince di questa raccolta in versi sono i contenuti e la sua struttura complessiva in quanto alle tematiche trattate. Il poeta deve assolutamente essere presente al proprio tempo, la sua attenzione deve essere attiva, egli deve denunciare, come nessun giornalista o opinionista sa fare, i disagi della propria epoca in modo fulmineo: il lettore deve provare una scossa e in qualche modo svenire nella poesia e risvegliarsi con una visione della realtà decodificata proprio dallo spirito sapiente e puro del poeta.

La poesia è essenzialmente politica, non può non occuparsi degli affari umani, in quanto sia la poesia che la politica sono, appunto, affari umani; entrambe, poesia e politica, sono protese ad armonizzare l’uomo nel suo stare al mondo fatto di relazioni, con sé stesso, con le altre persone, con i luoghi in cui abita e vive le proprie necessità e speranze.

Per quanto detto, la poesia di Cecere è politica, perché è sociale, si occupa dell’uomo, essa guarda dentro e fuori dall’universo umano. Di più, la poesia di Cecere guarda, soprattutto, le distorsioni, le aberrazioni, indotte o spontanee, di un sistema sociale che sta raggiungendo il parossismo di insensati conflitti. Il poeta non può tacere.

Tra i vari testi di denuncia, ne troviamo uno dedicato ai popoli privi di libertà:

“Ricresceranno le remiganti / amputate nei giorni della notte. / Il volo riprenderanno / tra raffiche di maestrale / e correnti lievi ascensionali. / Planeremo sicuri / sulla dilagante azzurrità. / Ancora e ancora / ci riempiremo gli occhi / delle meraviglie / […]” (“Ancora in volo”, pag. 46).

Il poeta cerca, con uno sforzo sfrontato, quasi impossibile, ma è necessario provarci, di dare voce al disagio di chi voce non ha perché perso nella massa, negli eventi, nella morte; come questa poesia dedicata ai migranti deceduti nella stiva di un barcone:

“Temevi lo schiaffo del salmastro, / l’umido gelo di notti senza luna, / la vastità senz’orizzonte che spaurisce, / il mutare subdolo dell’onde. // […] // In un antro buio / s’è spento / di terrore pazzo / il tuo respiro. // […]” (“Non t’ha salvato l’alito del mare”, pag. 54).

 

Molte poesie hanno dediche molto significative che rivelano la natura della raccolta: “Alle donne africane”, “A una prostituta senegalese”, “Alle spose-bambine”, “A tutte le donne che temono per la loro vita”, “Alla bimba usata come kamikaze in Nigeria”, “Ai bimbi deceduti in Siria a causa del gas”, “A un bimbo siriano” e altre ancora. Si tratta di poesie attraverso le quali l’autrice esprime il suo personale disappunto ed esercita il diritto di denuncia; soprattutto, attraverso i suoi versi, cerca di farsi prossima a chi è più debole e indifeso, in qualche modo stabilisce un legame che annulli la solitudine o la dimenticanza del sacrificio di molti.

Tra i più deboli, quali donne e bambini in balia del male, l’autrice trova parole anche per un “collega”, il poeta iraniano Hashem Shabaani, pacifista impiccato, arrivato al culmine del sacrificio a causa della propria parola:

“Per sempre parlerai”: “[…] / Ma parlerai / Parlerai ancora / Parlerai sempre / Nei secoli / per secoli / le tue parole diranno… / […]” (pag. 45).

 

La poesia, oltre che di contenuti, è fatta anche di forma. In generale, il poeta, attraverso un uso sapiente delle parole, costruisce una sorta di impalcatura, fatta di rimandi e assonanze all’interno del componimento poetico, i cui significati rendono viva e bella la poesia.

Ed è proprio riguardo alla forma che mi permetto di fare alcune annotazioni, sapendo che l’autrice tiene a un parere sincero. Personalmente avrei lavorato diversamente la maggior parte dei testi, trovo debole la scelta dell’inversione tra il nome e l’aggettivo, una scelta che pone la raccolta un po’ decentrata, sul versante del passato, rispetto alle forme poetiche contemporanee. Se fossi stato l’editor avrei proposto un ammodernamento dell’opera, che trovo, invece, pervasa da un vago afrore di “superato”, stridente con i contenuti attualissimi di cui si tratta: una scelta di scrittura più vivace e moderna, meno aulica, avrebbe giovato all’incisività della raccolta.

Alcuni esempi: “[…] / delle sorelle tue orientali / […]”, forse sarebbe stato più adatto: “delle tue sorelle orientali”; oppure “Sulla battigia, / dalle onde accarezzato, / […]” forse sarebbe stato più adatto scrivere il secondo verso così: “accarezzato dalle onde”; eccetera.

Inoltre, ho trovato, sparse qua e là, alcune parole che, personalmente, trovo desuete, come ad esempio la parola “leggiadro”, sostituibile con molti sinonimi.

Concludo dicendo la solita banalità, la poesia è un percorso che richiede allenamento, molta lettura, confronto e capacità di mettersi in discussione… ma dà le sue soddisfazioni, anzi, trovo che la soddisfazione maggiore nel fare poesia venga proprio dal lavoro di cesello sui testi.

 

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